Recensione del libro UN DONO PER TE E PER ME

UN DONO PER TE E PER ME
di Giovanna Guardiani
Edizioni Montag

Recensione a cura di E.Mancinelli
“Sono nata in un paese lontano e vi sono rimasta fino all’età di quattro anni, sono tornata una sola volta, durante la mia vita, nella mia terra ornata di fiori, di colori, di festa, per
percepire e toccare le mie origini di donna vagabonda e libera, dolce, romantica, tenera, a volte cruda, d’avventura, da leggere. Una storia sul filo di quei ricordi che è impossibile dimenticare”
Così la scrittrice inizia il suo viaggio ripercorrendo gli avvenimenti della sua esistenza, dall’infanzia all’età adulta ma in modo diverso , puntando cioè i riflettori sui ricordi belli sulle emozioni più intense , le esperienze che le hanno procurato gioia : la bellezza, l’armonia, l’arte, i ricordi . Fin dalle prime pagina la protagonista mostra interesse verso tutto ciò che la circonda, si nutre e vive delle piccole cose che la fanno felice, godendo ogni attimo della semplicità della vita in campagna, vivendo come un gioco l’apprendimento della scrittura e della lettura, imparando ad osservare ed a valutare l’animo umano, le sue debolezze e le sue ricchezze.
L’insegnamento e la maternità diventano ragioni essenziali della sua esistenza .ma anche l’amicizia, che ritiene sia da mantenere viva nutrendola di libertà, di sincerità, di accettazione profonda dell’altro. Un amico sa ascoltare i movimenti dell’anima, non giudica, non critica, ti aiuta a cambiare, a migliorarti. Prendendo spunto da esperienze negative come dipendenza dall’alcool e disturbi psicologici avute dai suoi amici, indirizza il lettore a riflessioni riguardanti l’essenza della vita, il raggiungimento della felicità vera. La bellezza è nel nostro animo, sta a noi saperla donare, usare per cercare di migliorare il nostro mondo.
Vivere è stupendo, basta rispettarne le regole e essere in armonia con l’universo.


Riportiamo uno stralcio del libro “Nonna Cwcilia” tratto dal romanzo “Un dono per me e per te” di Giovanna Guardiani )

NONNA CECILIA

Quando la mia famiglia andò via dalla campagna, mio padre vendette il casolare a due coniugi, il signor Guglielmo e la signora Cecilia. Nacque una bella e duratura amicizia tra la mia famiglia e i due e così, quando volevo, mi rintanavo in quel luogo meraviglioso. Nonna Cecilia, così la chiamavo, rappresentò il mio porto sicuro per tanti anni. Divenni adulta e lei era sempre lì ad accogliermi col suo luminoso sorriso.
Nonna Cecilia lavorava nei campi, ascoltava la terra e la ringraziava. Quando cominciò ad avvertire i primi segnali di un possibile progresso e tutti erano felici di abbandonare la loro condizione di povertà e molti cominciarono a lasciare il paesino, le terre per andare nelle fabbriche, per preparare un mondo migliore, lei diceva: Potrà essere un giorno il mondo migliore se per costruirlo soffochiamo la terra? Come potrà l’uomo un giorno ascoltare la terra, sentire i suoi profumi, i suoi suoni, il suo alito se tutto sarà coperto di cemento? Come potrà avvertire se la terra starà bene o male?
Lei guardava lontano e aveva anche il sospetto che l’animo dell’uomo ne avrebbe sofferto. Qualcosa di prezioso sarebbe morto dentro di lui e anche la terra, forse, si sarebbe ammalata. Nonna Cecilia non era andata a scuola eppure quanta saggezza! Come se l’era costruita non lo so. L’avevo conosciuta così. Si presentava sempre per quella che era. A novant’anni continuava a ripetere: “ Prendetemi per quella che sono con tutte le mie debolezze, la mia stupidaggine, se non ci riuscite, lasciatemi stare, per me va bene lo stesso”.
Per nonna Cecilia prima venivano le persone poi le cose. Non dava mai ordini a nessuno, si muoveva sul sentiero dell’amore e della gioia. Aveva un viso rugoso, ma abbronzatissimo, con due occhietti vivi, vispi, curiosi. Era una bella donna e lo sapeva. Mangiava poco, non si abbuffava, ma ricorreva spesso ai cibi nutrienti. Quante volte l’avevo vista bere l’ovetto fresco e un bicchierino di marsala, mi diceva: “Sai valgono più di una medicina. Era una grande lavoratrice, ma sapeva anche rilassarsi, divertirsi, assaporare le piccole cose”.
Con lei tutto acquistava un fascino particolare. La domenica mattina, quando stavo da lei, ed ero ancora una bambina, passeggiavamo lungo la strada principale del paese e non si limitava a salutare chi incontrava, lo abbracciava, lo stringeva, lo toccava.
Spesso organizzava feste e preparava vari tipi di pietanze. A volte, quando tutti erano seduti attorno a quell’enorme tavolo, lei si alzava e diceva: “Amici miei, figli miei guardate la vita come a una tavola imbandita, assaggiate di tutto e assaporatelo fino in fondo e ora buon appetito!” Col tempo ho capito che era una donna che amava e donava, come tutti del resto, ciò che possedeva. Lei possedeva amore e questo donava, se fosse stata ignorante avrebbe donato la sua ignoranza, se fosse stata chiusa avrebbe donato i suoi pregiudizi.
Quando divenni signorina spesso mi parlava dell’amore, non solo di quello universale che dovrebbe legare tutti gli esseri umani, ma anche di quello che unisce un uomo e una donna. Il suo percorso iniziò con una folgorante passione. Raccontava sempre che una sera andò ad una festa e all’improvviso notò un bellissimo giovanotto alto, ma non c’entrava niente, ripeteva, che era alto, che aveva gli occhi verdi. Era ciò che sprigionava che per lei fu irresistibile e ciò che sprigionava non dipendeva dalle sue parole, non ci aveva ancora parlato, non dipendeva nemmeno dal tatto, non l’aveva ancora toccato e nemmeno dal suo odore non l’aveva ancora annusato. Quell’uomo sprigionava raggi magnetici che la catturarono in un istante e, in quell’istante assistette alla sua metamorfosi: sentì di possedere cervello diverso e soprattutto un sesso diverso. Sentì un fluido percorrere il suo corpo e capì che niente poteva essere sotto controllo, fu pervasa dall’irresistibile desiderio di unire il suo corpo a quello di lui e di fondere le loro anime, le loro cellule interne. Si trattava di un richiamo che veniva da dentro non poteva calmare, attutire niente; era troppo forte ciò che sentiva. Assisteva impotente allo stravolgimento dei suoi sensi.
Quella sera iniziò il suo viaggio e, giorno dopo giorno, scoprì di cosa era capace, cioè di tutto. La passione spazzò paure, limiti, fece in modo che non ci fosse più posto per la ragione e la riempì di emozioni, di sentimenti e la unì al suo uomo e nello stesso tempo al mondo. Era come se tutto il suo essere si fosse impregnato dell’energia del mondo e inevitabilmente anche lei sprigionava energia.
Ascoltandola capivo che la passione non si costruisce, non si programma. Capita e, nell’istante in cui capita, non si è più quella che si è sempre creduto di essere, pur volendo, non si può più essere quella di prima perché si ha a che fare con il rapimento. La passione entra in modo violento, diretto.
Entra senza preavviso.
Un giorno, quell’affascinante giovanotto così come all’improvviso era apparso, scomparve. Sposò una ragazzina di un paese vicino al suo. Nonna Cecilia soffrì molto, ma col tempo capì che la passione non arriva per portare sicurezza, stabilità, arriva proprio per destabilizzare, per togliere l’uomo dalle sue abitudini, certezze e riconnetterlo all’energia dell’universo. In seguito arrivò un altro uomo, quello da sposare.
Gli incontri erano meno surriscaldati, meno esplosivi e scoppiettanti, lasciavano spazio ai progetti, ai desideri da realizzare, a un amore che richiedeva condivisione, affetto, energia diluita nel tempo. L’amore, diceva, va trattato con cura, l’amore a volte richiede anche saggezza, l’amore sempre porta con sé lo struggente desiderio di legare l’altro a sé, bisogna stare molto attenti a legare l’altro. E’ bene legare l’altro con un filo invisibile. L’altro deve avere sempre la certezza che può andare e sentire di voler restare.

Un giorno assistetti alla sua morte, poco prima di morire mi disse: Muoio serena e non solo perché sono arrivata dove la mia anima desiderava arrivare ma anche perché so di aver vissuto.

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