“Pranzo di Natale”
di Vittorina Castellano
Era una fredda mattina di dicembre, il cielo era plumbeo ma non nevicava, mancavano due giorni al Natale. Ero già sveglia da un pezzo, guardavo, o meglio, sentivo gli altri dormire! Eravamo in diciotto in quella stalla, in troppi, bambini, ragazzi e adulti, stesi sulla paglia a stretto contatto di gomito, senza alcuna possibilità di rigirarsi nel sonno. Fermi, come tanti cadaveri in fila! Dormivamo tutti vestiti, con più indumenti, quei pochi che eravamo riusciti a portare con noi, il freddo era così pungente da anestetizzarci e gli spifferi sembravano alisei. Avevo solo tredici anni, ero cresciuta troppo in fretta; mia madre mi aveva tagliato i lunghi capelli neri, mi faceva indossare un paio di pantaloni di mio fratello e tutti mi chiamavano Mario invece che Maria. Allora non riuscivo a capire il motivo di quella forzata metamorfosi, e ogni volta che le chiedevo spiegazioni mi rispondeva Le bambine le portano in paese i tedeschi e le fanno lavorare sodo! -. Il mio paese, Ortona, era stato bombardato e poi occupato dai tedeschi. Ricordo con terrore il giorno in cui sentimmo il rombo dei motori degli aerei che si avvicinavano: ci fu un fuggi fuggi generale, abbandonammo le nostre case, riuscendo a prendere quelle poche cose a portata di mano e poi via per i sentieri che portavano alle campagne limitrofe. Appiattiti fra i cespugli, vedemmo gli aerei sganciare delle sagome scure che, con uno strano sibilo, colpivano esplodendo le case del paese. Dopo qualche minuto una gigantesca nube di polvere grigia ovattava Ortona. Gli aerei ormai erano dei punti neri all’orizzonte, un silenzio agghiacciante ci opprimeva. Iniziava così il nostro soggiorno da sfollati: raggiungemmo un casolare a qualche Km dal sentiero che portava al paese. Con noi c’erano i nonni, gli zii con le loro famiglie : eravamo una vera tribù. I contadini del casolare ci misero a disposizione il fienile adiacente alla stalla: una staccionata, rimediata e malferma, ci separava dalle nostre coinquiline, due mucche maleodoranti, però due sante mucche che ogni mattina, con il loro latte caldo, contribuivano a sostenere la comunità. La signora Rosa, la padrona di casa, aiutata da mia madre e dalle mie zie, impastava ogni giorno e poi cuoceva in un forno, quattro forme di pane che,debitamente affettate, venivano stipate in una madia, e costituivano il cibo per tutti noi: pane e latte, pane cotto, pane e acqua. Eravamo vicini al Natale, i bombardamenti e il nostro soggiorno forzato durava da sei mesi, e le scorte di farina si stavano esaurendo, la madia ospitava ogni giorno una quantità inferiore di pane. La mattina mi svegliavo con un forte vuoto allo stomaco, e meditavo di andare di nascosto al paese per vedere se c’era ancora la mia casa e qualcosa da mangiare. Mi rendevo conto che questo sarebbe stato un compito più adatto a mio padre ma il poverino, insieme ai fratelli e al contadino, durante il giorno erano nascosti in una botola del sottoscala, a riparo delle rappresaglie dei tedeschi che ogni tanto razziavano nelle campagne. Dovevo fare qualcosa, ero la pi? grande dei ragazzi, mi girai verso mio fratello Giovanni, di un anno pi? piccolo di me, e cercando di pungolare la sua curiosit? gli sussurrai all?orecchio. ? Vieni con me al paese? Non hai voglia di vedere cosa ? successo? -? – Sai che la mamma non vuole, ci ha vietato di allontanarci, ? pericoloso! -? – Non diremo niente alla mamma, saremo di ritorno prima che si accorga della nostra assenza, siamo bravi a correre! -? – Va bene, per? se si arrabbia la colpa ? tutta tua, promesso?- – Promesso, fifone!-? Decidemmo di avventurarci il mattino seguente, ci saremmo svegliati prima degli altri, in quella confusione di corpi sotto le misere coperte, nessuno si sarebbe accorto che mancavamo. Ero cos? eccitata che mi svegliai prima del solito, strattonai pi? volte Giovanni, non voleva saperne di alzarsi. Era sonno o ripensamento? Provai ancora, niente, ero comunque decisa ad andare, anche da sola. Iniziai a scavalcare con passo felpato gli ignari dormienti e in sei,? sette balzi mi ritrovai all?aperto: era ancora buio e il freddo era paralizzante. Stavo meditando che forse era meglio rientrare nel giaciglio, quando mi sentii afferrare la mano ? Non ti lascio andare sola, testona! ?? Non potevo fare la figura della ?femminuccia paurosa?, in fondo per lui ero Mario, il fratello maggiore, un esempio da imitare e seguire. I nostri occhi si abituarono subito all?oscurit?, riuscivamo a distinguere le cose e ad orientarci. Camminavamo veloci verso il chiarore dell?alba dove si stagliava il nero profilo di Ortona martoriata. Trovammo il sentiero che portava al paese, avevamo il cuore in gola, un po? per paura, un po? per stanchezza.? Camminavamo da un paio d?ore, avevamo sottovalutato la distanza. Ormai il chiarore era diffuso, il sole si alzava sul mare, con affanno costeggiammo case ridotte in un cumulo di macerie, il paese, o meglio quel che restava del paese, sembrava deserto. Dopo sei mesi di bombardamenti, rimanevano solo poche case ?in piedi?, si scorgevano solo pareti lesionate che circondavano cumuli di macerie. Anche la cupola di San Tommaso era crollata e del maestoso castello aragonese rimaneva ben poco. Volevamo andare a vedere se c?era ancora la nostra casa,? ma dopo pochi passi ci bloccammo impietriti: a terra, con un fiotto di sangue sul petto e gli occhi sbarrati, giaceva la signora Agnese, nostra vicina di casa, aveva accanto a s? dei fagotti. Giovanni trattenne a stento un urlo, poi cominci? a correre come un matto da dove eravamo arrivati. Rimasi sola, paralizzata, mi guardai intorno, non c?era nessuno a cui chiedere aiuto, ma forse nessuno avrebbe potuto aiutare pi? la signora Agnese. Tornai indietro per raggiungere mio fratello e, svoltato l?angolo, vidi la casa dei signori Ciampoli intatta, mi avvicinai al negozio, la porta era aperta, entrai, non c?era nessuno, ma gli scaffali erano ancora pieni di tutti quei cappelli di feltro a falda larga, che tanto piacevano a mio padre e a mio nonno. Ne afferrai due e me li calcai sulla testa. ? Raus! ? Un urlo mi fece sobbalzare. ? Raus! ? mi sentii letteralmente sollevare e scaraventare fuori dal negozio. Mi rialzai in preda al panico,? risentivo le parole della mamma ? I tedeschi prendono le bambine e le fanno lavorare sodo! -? avevo davanti agli occhi il viso impietrito della signora Agnese. ? Raus! ? mi sentii spingere con il calcio del fucile, un chiaro invito a fuggire da quella drammatica situazione. Cominciai a correre con le poche forze rimaste, sembravo una scheggia impazzita, avevo perso il senso dell?orientamento. ? Mario! ? era la voce di Giovanni, mi fermai, lo vidi spuntare dai ruderi di una casa, rideva divertito:- Sei gi? passata di qui tre volte! ? Non avevo pi? la forza per sgridarlo, ero ancora viva e dovevamo tornare in fretta al casolare.? Imboccammo un altro sentiero che portava in campagna, le gambe mi tremavano, ero preoccupata, sicuramente non avrei raccontato il mio incontro ravvicinato con il soldato, neanche a Giovanni. In testa avevo ancora i cappelli, uno nero e l?altro marrone, peccato per? che non erano commestibili! Camminavamo spediti ma ad un tratto Giovanni si blocc? e si chin? a terra ? Guarda! ?? aveva raccolto? una sarda sotto sale, – Come sono arrivate fin qui, il mare ? laggi?!-? Sul ciglio del sentiero c?erano delle doghe rotte di una botte, forse caduta da un carretto, e sparse, intorno, una incredibile quantit? di sarde. Una vera manna! Che fare, agii d?istinto, mi tolsi i cappelli dalla testa, ne consegnai uno a Giovanni: – Riempilo in fretta! ? In men che non si dica avevamo i cappelli pieni di sarde! Il sole era gi? alto nel cielo, il casolare sembrava un alveare, tutti che si agitavano caoticamente, sentivamo gridare i nostri nomi, e,? per paura di chiss? quale punizione, ci nascondemmo dietro un cespuglio. ?L?odore ? delle sarde presto avrebbe portato qualcuno verso il nostro nascondiglio. Forse ci avrebbero sgridati, forse? sarebbe volato qualche ceffone, pensai, ma non potevamo lasciare pi? in ansia i miei. Ci avvicinammo cautamente, porgendo i nostri cappelli pieni di sarde fino alla falda. Con nostro g
rande stupore le grida si placarono di colpo e fummo accolti come due re magi in visita a Ges? Bambino.? Era il 23 dicembre, dal paese provenivano boati e bagliori: gli alleati stavano cacciando i tedeschi da Ortona. Inconsapevolmente avevamo sfiorato la sanguinosa battaglia, ma ci festeggiarono come due eroi. Il 25 dicembre apparecchiammo un lungo tavolo, le sarde furono il nostro lauto pranzo di Natale. Il 28 dicembre Ortona fu liberata,? ritornammo? in paese: la nostra casa era là, saccheggiata ma ancora in piedi.
Questo racconto “Pranzo di Natale” ha ricevuto una “menzione d’onore” al Concorso letterario internazionale l’Arcobaleno della Vita Citta’ di Lendinara
Vittorina Castellano
Docente di ruolo di Scienze Naturali, Chimica e Geografia presso il Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” di Pescara.