La statua
8-1994, 7-1999
6-5-2003 (revisione)
Quella che sto per raccontare, ? una strana storia.
Ora sono qui nel mio studio, disteso, con le sculture che mi
circondano quasi osservando il mio corpo al loro cospetto.
E’ strano, sentirsi spiato da una propria opera ? come sentirsi
spiati da una parte di se stessi.
Non puoi nascondere nulla.
Sa tutto.
Sai tutto.
Mi hanno narrato, molto tempo fa, la storia di un bambino che vide
una scultura in due momenti diversi: quando era ancora da
completare, e (dopo qualche tempo) quando era pronta, come viva, in
tutto il suo splendore. Il bimbo disse al grande scultore:
“Caspita! Come facevi a sapere che quella donna fosse l? dentro?”.
Questa storia mi ha sempre affascinato.
Ma io sono diverso. Non ? cos?, per me.
Quando scolpisco un blocco di marmo, non sento di liberarne il
soggetto.
E’ una specie di magia.
Non sento di liberare ma di creare, fisicamente, ogni sensazione,
ogni muscolo, ogni tendine della mia scultura. Cos?, sono il Dio
del mio mondo.
Ho passato gran parte della mio tempo in questo studio.
E’ enorme, ma all’inizio usavo solo un piccolo angolo, che mio padre
mi aveva concesso.
Io e lui non ci parlavamo mai. Eravamo come due sconosciuti,
costretti a dividere gli stessi spazi. Vivevo solo con lui; aveva
un mobilificio, e trattava mobili antichi.
Ero piuttosto piccolo, avevo si e no quindici anni, quando un
signore, interessato probabilmente ai mobili, aveva notato una
piccola statua di marmo su un antico pianoforte in esposizione.
Se ne era innamorato.
Rappresentava una donna, un angelo, in piedi, con le enormi ali in
parte – ma solo in parte – posate sulla schiena.
I capelli lunghi, che suggerivano un colore chiaro, scendevano
morbidi, e le braccia coprivano i seni e il pube.
Era uno splendore di purezza, candore e fierezza.
Sul volto, un leggero sorriso, che sembrava dire “Sono qui, fiera,
felice di essere, per sempre”. Quella statua l’avevo copiata dalla
mia stessa immaginazione, era la mia idea di angelo perfetto.
Aveva chiesto a mio padre chi fosse l’artista.
Mio padre gli aveva detto che l’artista ero io, suo figlio, di
quindici anni. L’uomo era tornato il pomeriggio.
E, da allora, fu con me ogni pomeriggio, per insegnarmi l’arte della
scultura.
Mi chiese, come scambio simbolico, di poter tenere la piccola statua
nella sua casa fino al giorno della sua morte.
Si chiamava Nicolai, e divenne il mio maestro.
Col tempo, divenne nei miei confronti una specie di padre.
C’era qualcosa, in me, che amava furiosamente.
Mi ci affezionai moltissimo, subito.
Veniva sempre, ogni giorno, quando tornavo da scuola. E mi
insegnava, mi dava consigli, mi suggeriva tecniche e ritmi di
lavoro.
Per un anno, fu sempre con me, ogni pomeriggio.
Non manc? praticamente mai.
Poi, mio padre mor?.
E piansi disperato. Forse perch?, in realt?, odiavo mio padre,
odiavo il suo silenzio, ed odiavo me stesso, che in realt? ero
insensibile alla sua morte.
Sgomberai il mobilificio, e smisi di andare a scuola.
Scolpivo, scolpivo e basta. Non esisteva altro, nella mia vita.
Nicolai sapeva che cos? era sbagliato, ma non poteva fare nulla per
cambiare le cose.
La mia voglia di creare era ci? che pi? amavo, e la mia prigione.
Rimanere assorto a creare qualcosa mi faceva entrare in una specie
di mondo diverso da quello reale, in cui il tempo perdeva di
significato.
Imparavo, e imparando cambiavo.
Scolpire significava rifugiarmi dal mondo dal quale mi sentivo
sopraffatto, e crearne uno in cui il dolore, la gioia, la
solitudine, assumevano un significato diverso.
Solo lavorando mi sentivo veramente me stesso.
Soltanto scolpendo, la mia vera personalit? si esaltava e respirava
una boccata di ossigeno dopo tempi infiniti nei quali soffocava.
In ci? che creavo c’era la mia personalit?, la mia espressione, la
mia vita, forse.
Portavo me stesso su un livello superiore rispetto a chi mi era
intorno.
Il pensiero della morte mi spaventava soltanto per il fatto che non
avrei mai pi? provato quelle sensazioni.
Non avrei mai pi? creato.
Sarei stato un Dio morto. E sarebbe morto, con me, tutto quello che
avevo generato.
Se stavo male, ed ero costretto a letto, non facevo altro che
immaginare e sviluppare nella mia mente figure e soggetti che avrei
voluto realizzare una volta in piedi.
E la malattia diventava un mostro che si nutriva del mio tempo.
Sentivo la mancanza di qualcosa, in realt?.
C’era sempre quel vuoto che non sarei mai riuscito a colmare, ma col
passare del tempo gli diedi sempre meno importanza, finch? non
divenne una parte di me che davo per scontata e che accettavo in
silenzio.
Avrei voluto che quella vita fosse continuata per sempre.
Nicolai, sei anni dopo, mor?.
Il vecchio pianoforte era rimasto ed ora, dopo sette anni di
assenza, c’era anche la statua, che Nicolai aveva avuto nella sua
casa.
Attraversai un periodo tremendo.
Ero solo, e sentivo solo silenzio, che non era silenzio.
Mi penetrava col suo sottile fruscio fin dentro il cervello,
prepotente, cieco, impietoso.
Avevo ventidue anni.
Da quel momento, il mio maestro, lui, era immobile, freddo, in una
tomba, a regalare il suo corpo alla stessa terra che lo aveva
generato.
Le statue sono immortali, non invecchiano, la loro pelle non
degenera mai, i loro occhi non si chiudono.
La loro quiete, la calma della loro natura ibernata, immutabile, ?
la loro immortalit?.
E’ la loro condanna dell’esistere senza essere.
Ma Nicolai non era una statua, gli uomini non vivono per sempre, e
lui era morto, semplicemente morto.
Non sopportavo l’idea.
Quando era morto mio padre, era stato diverso.
Ora ero solo, in un mondo che non conoscevo.
Mi sedetti al pianoforte, ne sfiorai leggermente i tasti.
Suono cupo, stridulo, muto, quasi.
Posai gli occhi sull’angelo.
Mai nessuno, nella mia vita.
Solo statue, statue di marmo immobili.
Stupende donne-angelo nelle pi? straordinarie pose di libert?.
Chiuse nella loro atroce, non ribelle rigidit?, che ingigantisce la
loro bellezza.
Anni prima, avevo smesso di andare a scuola.
Avevo interrotto ogni rapporto umano con chi avevo avuto intorno.
Ora ero solo.
Il mio maestro era morto.
Una parte di me era morta insieme a lui.
Subito dopo la sua morte, passai due giorni senza n? mangiare n?
bere.
Steso sul letto, pensavo ferocemente e subito mi spegnevo come una
lampadina che emana il suo ultimo sprazzo di vita prima di
bruciarsi.
Continuamente.
Non bruciavo mai.
Stavo impazzendo.
Il terzo giorno, stremato, decisi di ridonare nuova vita alla
piccola statua della quale Nicolai si era innamorato anni prima.
Ora, doveva essere pi? grande, pi? maestosa, pi? splendente che mai.
Presi in mano il piccolo angelo, lo fissai.
Era vivo. Non poteva essere diversamente, era vivo e mi guardava.
Sorridendo.
Pensai a Nicolai.
Piansi.
Quella statua: l’inizio di tutto.
Forse, la fine di qualcosa.
La girai in tutti i versi, stampandomi in mente ogni pi? piccolo
dettaglio.
Aprii le mani.
Cadde.
La osservai mentre raggiungeva il pavimento, forse troppo
lentamente.
Non si fece a met?. Non rest? mutilata.
Si frantum? in un milione di piccoli pezzi. La sua anima, forse, era
volata via, libera da quel piccolo e gelido corpo.
Forse ? con Nicolai, pensai.
No, non poteva essere. La realt? non ? mai poetica quanto la
fantasia.
Mi misi immediatamente al lavoro.
C’era un blocco di marmo che mi sembrava abbastanza adatto. Non
perfetto, forse troppo fino, ma adatto.
Lavorai giorno e notte.
A volte mi fermavo, dormivo, mangiavo e ricominciavo.
Non avevo pi? il senso della giornata.
Dovevo scolpire, ogni momento, ogni attimo.
Le ali, possenti ma non spiegate, i capelli, come seta, e il corpo,
incominciarono lentamente ad esistere.
Poi, il viso.
Stupendo.
Non ho idea di quanto tempo impiegai.
Ma finii in fretta.
Era il mio capolavoro.
Perfetta.
Era la mia donna, la mia fortuna.
Aveva le proporzioni esatte di un essere umano.
Quando pensai di aver finito, andai a dormire per la prima volta con
il dolce pensiero di non avere nulla da fare.
Dormii tranquillo.
Mi svegliai un’eternit? dopo.
Quando mi svegliai, osservai di nuovo la mia creazione.
Lo splendore della piccola statua era moltiplicato ora per tutta la
sua nuova, fantastica grandezza.
Non avevo conosciuto donna, nella mia vita.
Non avevo mai amato nessuno, neanche me stesso. Odiavo il mio
aspetto, il mio corpo.
Lei, era la perfezione.
Ogni angolo del suo corpo acquistava una sublime dolcezza.
La sua gelida compiacenza esaltava il mio spirito.
Immaginavo la sua immutabilit?, il suo esistere per me – ed in me –
al di sopra delle parti, al di sopra del mondo.
Era la mia Dea.
Ne ero innamorato.
Divenne tutto.
Dimenticai di esserne l’artefice. Probabilmente, non lo ero.
Probabilmente era l’esplosione di tutti i miei desideri, di tutte le
mie sofferenze, di tutta la mia vita mai vissuta ma mai
disprezzata.
Era forte come il marmo di cui era fatta, e debole, pronta a
frantumarsi o mutilarsi da un momento all’altro.
E, soprattutto, era l?.
Non potevo fare a meno di guardarla.
Il fatto che altri occhi avrebbero potuto posarsi su di lei,
avrebbero potuto desiderarla, mi faceva impazzire.
Accarezzai il suo corpo con le mani nude.
Sembr? intenso, morbido, freddo e unico.
Avrei fatto qualunque cosa perch? smettesse di essere una statua.
Avrei fatto qualunque cosa perch? diventasse una persona vera, dalla
quale farmi abbracciare, farmi amare.
Piansi, piansi perch? mai qualcosa di mia concezione avrebbe potuto
esistere. Mai avrebbe davvero avuto la vita.
Le avrei dato la mia, se avessi potuto.
Ero come uscito da un incubo.
Vedevo in lei la luce dell’uscita, della speranza.
Sarei stato una persona diversa, per lei.
Perch? lei era tutto.
Pensai all’amore.
Nessuno lo soddisfa davvero, perch? gli esseri umani, abituati alla
tiepidezza della vita quotidiana, ne escono bruciati.
Mi sedetti a terra. Posai una guancia su un cuscino, continuando a
guardarla. Stavo bruciando anch’io.
Mi addormentai osservando il suo volto.
Dopo un tempo inquantificabile, aprii gli occhi.
Ero sempre l?, vicino alla base della mia opera d’arte.
Avevo la schiena a pezzi.
Tutto ci? che vedevo era offuscato, odiavo quella sensazione.
Alzai gli occhi verso di lei.
Non c’era pi?.
Richiusi gli occhi, convinto che appena li avessi riaperti la avrei
trovata l?, dove io le avevo dato forma.
Allucinazioni notturne, solo allucinazioni notturne.
Aprii gli occhi.
E fu buio.
Li richiusi piano, impaurito.
E fu luce.
Forse stavo impazzendo.
Forse stavo morendo, e vivevo sprazzi di lucida pazzia.
Pensai di alzami.
Forse, solo forse, lo feci davvero.
La statua non c’era. Nulla c’era.
C’ero solo io, chiuso in una stanza.
La piccola stanza divenne una bara.
La piccola bara divenne una tomba.
Pensai di essere morto, durante il sonno, affianco alla mia statua.
Ma non ero in posizione di riposo, con le gambe e le braccia
distese.
Il mio corpo era misteriosamente ricurvo in una posizione
improbabile.
I miei tendini vacillavano insieme alla mia schiena.
Non riuscivo a muovermi.
Non so come, riuscivo a vedere la mia schiena. Sembrava quella di un
gobbo.
Lo era, forse.
Qualcuno era vicino a me, ma io non potevo vedere nulla.
Sentivo il suo respiro.
Mi convinsi che fosse una donna.
Mi convinsi che fosse lei.
Tentai di girare la testa, ma mi resi conto di non avere nessun
controllo sui muscoli del mio collo.
Potevo vedere solo indietro, la mia schiena.
Sentivo che il suo corpo toccava il mio, ma non mi rendevo conto in
che modo. Mi sentivo un infame intruglio di organi viscidi tenuti
insieme dalla mia immobilit?.
Non volevo essere toccato, non cos?. Non volevo che lei si
accorgesse di quale cosa immonda fossi.
Sentii un prurito atroce. Non sulla schiena, ma…
Ma dentro.
Notai cosa stava succedendo.
La mia pelle aveva qualcosa di strano. Proprio al centro della
schiena, c’era come qualcosa che tentava di uscire.
Quando capii, probabilmente gli occhi mi uscirono dalle orbite.
Era un verme, che veniva fuori viscido e ripugnante.
Avrei voluto muovermi, avrei voluto trovare l’uscita, avrei voluto
liberarmi e liberarla…
Svenni nella mia bara.
Ebbi paura.
Dimenticai, di colpo, la bara.
Ero steso. Inalavo polvere.
E la polvere divenne sabbia.
E la sabbia divenne deserto.
E il deserto divenne paura.
Uno strano sole si accese. Un sole che bruciava senza scaldare.
Intorno a me, dune.
In lontananza, una donna che camminava.
Era lei.
Mi alzai, non so perch? fui sorpreso di riuscirci.
Incominciai a correre. Inutile. Le dune, intorno a me, cambiavano
sempre.
Il paesaggio era sempre lo stesso, e sempre diverso.
Non capivo tutti i cambiamenti.
Erano troppo veloci, e frenetici.
Correvo lo stesso, alla ricerca del mio desiderio.
Non mi persi mai, n? piansi.
Non potevo raggiungerla, lo sapevo.
La rincorsi lo stesso.
Caddi, e svenni, smettendo di respirare.
Quando mi risvegliai, avevo dimenticato quel deserto.
Non ero in nessun posto.
Intorno a me c’era tutto e niente, profondit? e piattezza, colore e
buio.
Ero in paradiso, o all’inferno.
Mi stupii di riuscire a respirare.
E la vidi.
Non correva, non era lontano da me, e non mi abbracciava.
Era precisamente, geometricamente di fronte a me, ma non come io
l’avevo scolpita.
Lei era viva.
Sorrideva, mostrando i precisi denti che io non le avevo mai
scolpito.
Quando tentai di avvicinarmi, lei si spavent?.
Volevo toccarla, lei si ritrasse.
Non capii.
E parl?.
‘ Se mi toccherai, nel momento in cui il contatto tra i nostri corpi
finir?, io non esister? pi?.`
`Se non mi toccherai, sar? viva al tuo fianco fino al giorno della
tua morte.`
Cos? disse.
Ci guardammo, due anime nuove ed ignare senza una meta e con una
decisione impossibile da prendere.
Ci guardammo, due anime innamorate.
Mi tese la mano. Le tesi la mano.
Sorrisi.
Sorrise.
Ci avvicinammo, ci stringemmo forte.
Non pensai al bene, al male, alla storia, a niente.
Una brezza leggera e calda ruppe il silenzio. Il vento che soffia
pu? essere la peggiore tortura e la pi? bella musica.
Baciandola, non odore, non sapore. Solo lei, che mi accarezzava
dolce e mi invadeva rompendo le barriere del mondo – del mio mondo.
Non aveva nome. Non era mai nata.
I nostri corpi si fusero insieme, e sentii tutta la mia vita pulsare
di colpo, risvegliata dalla voglia di essere e rimanere, per
sempre in quell’attimo inafferrabile.
Io ero lei. Lei era me.
Il mondo era concentrato nelle nostre esistenze.
C’era il bene, l’amore, il male, il tempo.
Insieme, come sempre, per sempre.
La dolce condanna alla quale eravamo destinati ci univa in un legame
unico e immortale.
Pensai che sarei rimasto per sempre l?, con lei, un quel posto nel
nostro universo. Non l’avrei mai lasciata. `Ti stringer? la mano per
sempre, fino al giorno della mia morte` dissi.
Ci credetti.
Pensai che l’amore pu? sopravvivere a tutto.
Mentre pensavo, mi addormentai.
Aprii gli occhi.
Ero una persona identica e diversa.
Vuoto nella mia mano.
Mi voltai.
Non pi? la statua, solo frammenti.
Ancora una volta.
Mi distesi.
E morii.